Riprendendo il discorso avviato in un precedente articolo sul nostro portale (premere qui per leggerlo), nel quale si discuteva sull’efficacia probatoria dei documenti informatici, oggi si porrà l’accento sull’espressione “mezzo di prova”, con la quale generalmente si indica quello strumento processuale che permette di acquisire un elemento di prova.
Tra questi strumenti processuali rientra la prova documentale, così come sancito dall’art. 234 c.p.p. (Prova documentale) secondo il quale
è consentita l’acquisizione di […] documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante […] qualsiasi altro mezzo”.
Tale norma ricomprende senza dubbio anche il c.d. documento informatico che, come si è già avuto modo di dire, è una rappresentazione informatica di atti, dati o fatti giuridicamente rilevanti (premere qui per approfondimenti), il cui incorporamento, ossia l’operazione mediante la quale la rappresentazione viene fissata su di una base materiale, viene realizzato con metodi digitali.
Questo è un concetto alquanto rilevante, soprattutto ai fini processuali, basti pensare, infatti che tale rappresentazione viene materialmente incorporata su di una base materiale mediante grandezze fisiche e variabili con sequenze di numeri zero e uno (sotto forma di impulsi elettrici). In altre parole, il dato c.d. informatico, ossia il dato che contiene l’informazione è composto quindi da una sequenza di bit.
E come si è già avuto modo di considerare (premere qui per leggere) , un bit archiviato su una memoria costituita da un supporto materiale (si pensi ad un comunissimo hard disk), si configura come la risultante della deformazione della materia del supporto materiale sul quale esso viene archiviato, per cui la materialità del bit dipenderà proprio dalla stretta connessione tra esso e la memoria sulla quale viene archiviato; quando poi il bit viene elaborato dalla memoria primaria, esso viene teletrasmesso dalla memoria secondaria mediante tecniche di commutazione a pacchetto, e in questa fase di trasmissione telematica è dematerializzato, poi una volta giunto nella memoria primaria assume la forma di un impulso tensionale elettrico, e si trova, quindi, definitivamente separato dalla materia della memoria secondaria, per cui in tale fase è propriamente dematerializzato.
Venendo ora al contenuto probatorio del documento informatico va subito precisato che esso non contiene esclusivamente i “dati” rappresentativi di fatti immediatamente percepibili all’uomo (come può essere il testo di un documento), ma anche i c.d. “metadati”, ossia quell’insieme di dati associati ad un file, generato automaticamente dal sistema (ma modificabile): si pensi ad esempio al nome utente, al nome dell’autore, al nome dell’autore delle revisioni, alla versione del documento, al software usato, alla cronologia di creazione, alla cronologia di ultima modifica, alla cronologia di ultimo accesso, al nome dell’azienda, o al nome del computer.
Per meglio comprendere quanto appena affermato, occorre volgere lo sguardo ad una dimensione più pratica, e a quanto la Suprema Corte di Cassazione ci insegna sul punto. Ed allora, con particolare riferimento ai dati informatici acquisiti dalla memoria del telefono (sms, messaggi WhatsApp, messaggi di posta elettronica “scaricati” e/o conservati nella memoria dell’apparecchio cellulare) essi hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. e non sono considerati “corrispondenza” ai sensi dell’art. 254 c.p.p. Più nello specifico, secondo l’insegnamento della Corte di legittimità, non è applicabile la disciplina dettata dall’art. 254 c.p.p. con riferimento a messaggi WhatsApp e SMS rinvenuti in un telefono cellulare sottoposto a sequestro, in quanto questi testi non rientrano nel concetto di “corrispondenza”, la cui nozione implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito. Non è nemmeno configurabile un’attività di intercettazione ai sensi dell’art. 266 c.p.p., che postula la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, mentre nel caso di specie ci si è limitati ad acquisire ex post il dato, conservato in memoria, che quei flussi documenta.
I dati informatici acquisiti dalla memoria del telefono (sms, messaggi WhatsApp, messaggi di posta elettronica “scaricati” e/o conservati nella memoria dell’apparecchio cellulare) hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. Di conseguenza la relativa attività acquisitiva non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche. Secondo l’insegnamento della Corte di legittimità non è applicabile la disciplina dettata dall’art. 254 cod. proc. pen. con riferimento a messaggi WhatsApp e SMS rinvenuti in un telefono cellulare sottoposto a sequestro, in quanto questi testi non rientrano nel concetto di “corrispondenza”, la cui nozione implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito (v. Sez. 3, n. 928 del 25/11/2015). Non è configurabile neppure un’attività di intercettazione, che postula, per sua natura, la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, mentre nel caso di specie ci si è limitati ad acquisire ex post il dato, conservato in memoria, che quei flussi documenta” . (Cass. Pen., Sez. V, 16 gennaio 2018, n. 1822).
È legittimo il provvedimento con cui il giudice di merito rigetta l’istanza di acquisizione della trascrizione di conversazioni, effettuate via Whatsapp e registrate da uno degli interlocutori, in quanto, pur concretandosi essa nella memorizzazione di un fatto storico, costituente prova documentale, ex art. 234 c.p.p., la sua utilizzabilità è, tuttavia, condizionata all’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione, al fine diversificare l’affidabilità, la provenienza e l’attendibilità del contenuto di dette conversazioni”. (Cass. pen., Sez. V, 25 ottobre 2017 n. 49016).
L’art. 234 del codice di procedura penale italiano consente l’acquisizione non solo di scritti ma anche di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo ed è del tutto irrilevante che le registrazioni siano effettuate in conformità alla disciplina della privacy, la quale non costituisce di certo una forma di sbarramento all’esercizio dell’azione penale. Va detto però che le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate e l’inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Quindi le videoregistrazioni effettuate dai privati con telecamere di sicurezza sono prove documentali, acquisibili ex art. 234 c.p.p., sicché i fotogrammi estrapolati da detti filmati ed inseriti in annotazioni di servizio non possono essere considerati prove illegittimamente acquisite e non ricadono nella sanzione processuale di inutilizzabilità.
È legittimamente acquisito ed utilizzato ai fini dell’affermazione della responsabilità penale un filmato effettuato con un telefonino, in quanto l’art. 234 c.p.p. consente l’acquisizione non solo di scritti ma anche di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo ed, al riguardo, è del tutto irrilevante che le registrazioni siano effettuate in conformità alla disciplina della privacy, la quale non costituisce sbarramento all’esercizio dell’azione penale”. (Cass. pen., Sez. V, 16 gennaio 2015, n. 2304).
E ancora
Le videoregistrazioni effettuate dai privati con telecamere di sicurezza sono prove documentali, acquisibili ex art. 234 c.p.p., sicché i fotogrammi estrapolati da detti filmati ed inseriti in annotazioni di servizio non possono essere considerati prove illegittimamente acquisite e non ricadono nella sanzione processuale di inutilizzabilità”. (Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2015, n. 6515).
E inoltre
La registrazione del colloquio, in quanto rappresentativa di un fatto, integra la prova documentale disciplinata dall’art. 234 primo comma c.p.p. Il documento fonografico è pienamente utilizzabile se non viola specifiche regole di acquisizione della prova”. (Cass. pen., SS.UU., 24 settembre 2003, n. 36747).
Quanto invece alle pagine web, la Suprema Corte suggerisce che una copia cartacea di una pagina web non può essere considerata un documento ufficiale a meno che non sia stata raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità a un momento ben individuato. Ciò significa che la copia cartacea deve essere accurata e verificabile per essere considerata valida come documento.
Va esclusa la qualità di documento in una copia su supporto cartaceo che non risulti essere stata raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità a un ben individuato momento. (Cassazione, Sez. Lavoro, 2 dicembre 2003 n. 2912/04).
Fatta questa breve rassegna “pratica” si può giungere alla conclusione di come la prova documentale informatica sia un mezzo di prova sempre più rilevante e diffuso nel processo, pur presentando essa dei rischi e delle sfide, sia dal punto di vista tecnico che normativo. Per garantire la validità e l’efficacia della prova documentale informatica, infatti, si rende necessario seguire delle regole e dei criteri rigorosi, che riguardano la formazione, la conservazione, la trasmissione e la valutazione dei documenti informatici. Ed è parimenti indispensabile un costante aggiornamento delle competenze e delle conoscenze degli operatori del diritto, che devono essere in grado di gestire e utilizzare correttamente le prove documentali informatiche.
Nicola Nappi
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