Con l’ordinanza in esame, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente la validità del ricorso per Cassazione nativo digitale notificato a mezzo PEC in caso di mancata sottoscrizione digitale.
Nel caso in questione, il convenuto ha eccepito l’inesistenza del ricorso nativo digitale notificato dall’Agenzia delle Entrate, poiché privo di sottoscrizione digitale da parte dell’avvocato dello Stato titolare del fascicolo. Nel controricorso si richiama una sentenza della Cassazione secondo cui il ricorso per Cassazione, anche in formato analogico, privo della sottoscrizione dell’avvocato, deve considerarsi giuridicamente inesistente e, quindi, inammissibile, in base al principio generale sancito dall’articolo 161, comma 2, del codice di procedura civile, estensibile a tutti gli atti processuali per i quali sia richiesta la sottoscrizione della parte o del suo difensore se abilitati a stare in giudizio in proprio.
Il Collegio cita due precedenti. Nella prima sentenza, la Cassazione afferma che l’atto introduttivo del giudizio redatto in formato elettronico e privo di firma digitale è nullo, poiché la firma digitale è equiparata dalla legge a una sottoscrizione autografa, che costituisce un requisito di validità dell’atto introduttivo anche in formato analogico. Nel secondo precedente, le Sezioni Unite della Cassazione sostengono che, nel caso di ricorso per Cassazione predisposto in forma di documento informatico e notificato in via telematica, l’atto nativo digitale notificato deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale. La mancata sottoscrizione può determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di attribuirne comunque la paternità certa, in base al principio del raggiungimento dello scopo. Le Sezioni Unite si soffermano anche sulla problematica dell’assenza della firma digitale nel ricorso per Cassazione, affermando che se si ammettesse la notificazione di un ricorso in formato informatico privo di firma digitale, verrebbe a mancare un originale sottoscritto, poiché l’attestazione di conformità della copia analogica del ricorso depositata al posto dell’originale digitale richiede a sua volta che quest’ultimo sia stato ritualmente sottoscritto.
Nell’ordinanza interlocutoria, il Collegio ritiene che il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite nella sentenza citata debba essere valutato nel contesto specifico del caso in questione, poiché non vi sarebbe la possibilità di ricorrere alla firma per autentica in calce alla procura speciale, non essendo questa necessaria se la parte è abilitata ad avvalersi dell’Avvocatura dello Stato, come nel caso presente. Inoltre, il vizio in questione viene considerato come una nullità e non una irregolarità formale. Per effetto della qualificazione di nullità, si applica il principio del raggiungimento dello scopo. Infine, non viene indagata la possibilità di accertare la paternità dell’atto mediante elementi esterni all’atto processuale e diversi dalla sottoscrizione, eventualità che è stata precedentemente menzionata.
Nell’ordinanza in esame, la Sezione Tributaria richiama il principio di non discriminazione del documento informatico rispetto a quello analogico o tradizionale. Si sottolinea che sebbene l’ordinamento si sforzi di equiparare pienamente il documento digitale a quello analogico nel contesto della crescente digitalizzazione del processo, ciò non implica una sorta di “discriminazione al contrario”. In altre parole, il documento informatico non può, di per sé, avere un peso superiore rispetto alla corrispondente categoria di riferimento in ambiente analogico. Il Collegio sottolinea che un atto processuale, semplicemente perché informatico, non può supplire al deficit strutturale che potrebbe affliggerlo rispetto ai requisiti di forma richiesti dalla norma, a meno che tali requisiti siano direttamente evincibili dal suo corredo informativo. La ricerca della paternità certa del ricorso mancante della firma digitale risulta quindi ancora più problematica, poiché è difficile desumerla dai dati identificativi informatici del documento stesso o dall’utilizzo di una casella PEC riferibile all’avvocato che avrebbe apparentemente redatto il ricorso. Si fa notare che questo vale sia per un avvocato del libero foro che per l’Avvocatura dello Stato, considerando anche la possibilità di accesso alla stessa casella PEC da parte di un soggetto diverso dal suo titolare, autorizzato o meno. La presunzione di riconducibilità al titolare si verifica solo mediante l’uso del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale, non mediante l’utilizzo della casella PEC del mittente, che è ovviamente personale.
Per approfondire:
Cass. civ., sez. II, ord., 13 giugno 2023, n. 16778
Daniele Giordano
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