La liquidazione del danno biologico cd. differenziale deve modellarsi sui criteri propri della causalità giuridica, e cioè con riferimento alla percentuale complessiva del danno (nella specie, il 50%), interamente ascritta all’agente sul piano della causalità materiale, da cui sottrarre quella non imputabile all’errore medico, del 30%, il cui risultato (20%) postula una liquidazione “per sottrazione”, tra il primo e il secondo valore numerico (50%-30%). Il relativo importo (stante la progressione geometrica e non aritmetica del punto tabellare d’invalidità) risulta inevitabilmente superiore a quello relativo allo stesso valore percentuale (20%) se calcolato da 0 a 20.
Tuttavia, in caso di coesistenza di una menomazione non imputabile ad errore medico e di altra menomazione ad esso riconducibile, vi è spazio per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno differenziale, calcolato come sopra, soltanto nel caso in cui, con giudizio controfattuale ex post, si accerti che le due tipologie di postumi (quella indipendente dall’errore medico, nel nostro caso, i postumi dell’infarto, e quella provocata dall’errore medico, nel nostro caso, i postumi dell’ischemia cerebrale), siano in rapporto di concorrenza e non di semplice coesistenza, ovvero che la presenza della prima tipologia di postumi incida negativamente, aggravando la situazione del soggetto leso, sui postumi derivanti dall’errore medico.
Questi i principi espressi dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza di ieri, 30 luglio 2024, n. 21261.
Maria Paola Caiazzo
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