I software e le app sono protetti dal diritto d’autore. Non ci sono dubbi. Del resto la legge sul diritto d’autore (Legge, 22/04/1941 n° 633, G.U. 16/07/1941) si apre proprio includendo i programmi per elaboratore nel novero delle opere protette da essa, e al secondo comma del primo articolo li assimila alle opere letterarie:
Sono altresì protetti i programmi per elaboratore come opere letterarie ai sensi della Convenzione di Berna sulla protezione delle opere letterarie ed artistiche ratificata e resa esecutiva con legge 20 giugno 1978, n. 399, nonché le banche di dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione intellettuale dell’autore”.
La non propriamente intuitiva equiparazione dei software e delle app alle opere letterarie fa sì però che ad essere protetti siano tutti quei programmi che, in qualunque forma espressi, risultino originali quali risultati di creazioni intellettuali dei loro autori.
Certo, di primo acchito potrebbe sembrare non semplice considerare un software o una app come una vera e propria opera letteraria al pari di una poesia o di un romanzo, ma sul punto già si è discusso, e si è visto infatti come la scelta del legislatore di assoggettare, in via generale, i software e le app alla disciplina prevista per le opere dell’ingegno (salva la possibilità, in determinati casi tipizzati nella prassi dall’Ufficio europeo per i brevetti, in cui ne è ammessa la brevettabilità) pone alcune criticità correlate alla pervasività della tutela fornita dal diritto d’autore in riferimento alle peculiarità dei software e delle app.
Va detto comunque che ad essere protette dal diritto d’autore sono le forme espressive con cui i programmi e le app sono espressi, e non le idee e i principi alla loro base. In altre parole, il diritto d’autore non protegge né lo scopo né tantomeno gli algoritmi che implementano le funzioni che il programma deve compiere, ma protegge bensì, sia quello che viene definito codice sorgente, e cioè l’insieme di passaggi e comandi predisposti dall’autore in una forma espressa e costituita da un linguaggio comprensibile all’uomo, sia quello che viene definito codice oggetto (compresi i relativi materiali preparatori), e cioè la traduzione del codice sorgente in linguaggio macchina. Del resto, è principio fondamentale del diritto d’autore quello secondo il quale la creazione è protetta indipendentemente dalla forma nella quale essa venga espressa. E dunque anche l’espressione nel linguaggio macchina costituisce una forma espressiva di creazione intellettuale, al pari delle opere letterarie ed artistiche in genere.
Ma com’è facile intuire, mentre non sembrano rinvenirsi particolari difficoltà nel riconoscere al codice sorgente la natura di opera letteraria, più problematico è invece ricondurre in tale ambito il codice oggetto, e cioè l’insieme di quelle istruzioni eseguibili per l’ottenimento di un determinato risultato dalla macchina. Essendo infatti esso costituito da una sequenza ordinata di impulsi elettrici, non può certamente risultare comprensibile da una persona umana e parimenti non può certo presentarsi in una forma espressiva sufficientemente autonoma ad integrare il requisito della creatività richiesto dal diritto d’autore. Tale profilo problematico può essere superato se si considera che il codice oggetto è tutelato soltanto in quanto costituisce la traduzione in forma eseguibile per la macchina dello stesso programma o app al quale si è riconosciuta dignità di opera proteggibile dal diritto d’autore.
Insomma, i software e le app, allora, sono disciplinati alla stregua delle opere letterarie pur non essendo tali, senza considerare il fatto che tanto in dottrina quanto in giurisprudenza manca una vera e propria definizione giuridica di software e/o di app.
Ed allora pare opportuno mettere anche in risalto come la maggioranza dei software e delle app presenti una creatività soggettiva tendenzialmente di basso livello. La maggior parte di essi, inoltre, costituiscono per lo più elaborazioni di altri programmi per elaboratori, e pertanto, ai fini della loro tutela, sembra sufficiente che tali elaborazioni non rappresentino un mero plagio. L’apporto creativo dell’autore può risultare quindi, nel caso dei software e delle app, assai limitato.
Va tenuta presente poi quella che è la modalità di circolazione dei software e delle app. Salvi infatti i casi di programmi open-source, tali opere vengono distribuite solo nella versione eseguibile in linguaggio macchina, ossia in quel codice oggetto cui si diceva prima, assolutamente incomprensibile per il fruitore.
Tale elemento, unito alle limitazioni previste per la libera decompilazione del codice oggetto, preclude l’accesso alle idee e ai principi alla base del programma, i quali, benché di per sé esclusi dalla tutela per espressa previsione dell’art. 2 n. 8) l. dir. aut., finiscono per non essere liberamente utilizzabili dalla collettività.
In conclusione va poi messo in evidenza ancora una ulteriore criticità legata al trattamento dei software e delle app quali opere dell’ingegno che è connessa alla durata della tutela prevista dalla legge sul diritto d’autore.
Essa, infatti, fu pensata inizialmente per opere del tutto estranee ad un mercato quale quello dei prodotti informatici in rapidissima e continua evoluzione. È infatti del tutto evidente come proteggere un software o una app per 70 anni dalla morte del suo autore, mantenendo così precluso l’accesso al codice sorgente per una simile durata temporale, nel contesto della moderna società dell’informazione risulti non solo privo di logica, ma anche potenzialmente dannoso per la circolazione del sapere informatico a beneficio della collettività.
Nicola Nappi
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