Se intendiamo per qualificazione giuridica quell’operazione interpretativa operata dai giuristi e finalizzata ad individuare la categoria astratta prevista da una norma nella quale ricondurre una particolare fattispecie concreta, in modo da identificarne la disciplina, si rischia di fare non poca fatica, e questo in quanto nella normativa di riferimento, sia europea che italiana, rarissimamente capita d’imbattersi nel termine “bit”.
Giova allora richiamare quei concetti fondamentali di informatica in base ai quali un file è un insieme di byte che costituiscono un agglomerato logico (testo, suoni, immagini, filmati…). E un byte è una sequenza utilizzata per codificare un singolo carattere alfanumerico in un computer, che è costituito da auna stringa di otto bit. E con il termine bit, invece, si indica la più piccola unità di informazione esistente e immaginabile che un sistema possa gestire.
Questa premessa si rende quanto mai necessaria per introdurre la questione che, sul piano strettamente giuridico, è maggiormente rilevante, e cioè se il bit, quindi la più piccola unità di informazione esistente sia un qualcosa di tangibile e di materiale, o viceversa di intangibile ed immateriale. E questo in quanto per i giuristi chiamati ad applicare le norme alle fattispecie concrete, e quindi a “qualificare giuridicamente” è importante stabilire se un oggetto abbia un dimensione materiale o immateriale.
Nicolas Negroponte nel suo “Essere Digitali” dirimeva questa questione affermando che
Un bit non ha colore, dimensioni o peso, e può viaggiare alla velocità della luce. È il più piccolo elemento atomico del DNA dell’informazione. È un modo di essere: si o no, vero o falso, su o giù, dentro o fuori, nero o bianco. Per praticità noi diciamo che un bit è 1 o 0. Che cosa significhi l’1 o lo 0 è un altro discorso. Ai primordi dell’era del computer una stringa di bit generalmente rappresentava informazioni di tipo numerico (…)
Tuttavia, su un piano più pratico, è necessario tenere bene in considerazione gli aspetti tecnici riguardanti la stessa dimensione fisica dei bit in rapporto con la memoria sulla quale sono registrati. Tale rapporto, infatti, dà luogo ad una problematica di rilevante importanza ai fini della definizione delle metodologie tecniche e delle regole per il corretto trattamento dei dati a fini giuridici e processuali.
Allo stato del progresso tecnologico, un bit, nella sua fase statica, non può prescindere dalla memoria sul quale sia registrato. Pertanto, anche la dimensione fisica di un bit dipende dalla tecnologia della memoria e dal tipo di materiale di cui è composta la stessa.
Giova pertanto precisare che in informatica i tipi di memorie vengono classificate in primarie (o centrali) e secondarie
(o di massa). In termini semplicissimi, le memorie primarie sono quelle usate in fase di esecuzione del programma, ed hanno quindi tempi di accesso rapidi per assecondare la velocità del processore, e vengono chiamate anche RAM (Random Access Memory), mentre invece le memorie secondarie sono quelle sulle quali vengono archiviati i file, come i CD-Rom, i DVD, gli Hard Disk o gli SSD.
Ebbene, un bit archiviato su una memoria costituita da un supporto materiale (si pensi ad un comunissimo hard disk), si configura come la risultante della deformazione della materia del supporto materiale sul quale esso viene archiviato, per cui la materialità del bit dipenderà proprio dalla stretta connessione tra esso e la memoria sulla quale viene archiviato; quando poi il bit viene elaborato dalla memoria primaria, esso viene teletrasmesso dalla memoria secondaria mediante tecniche di commutazione a pacchetto, e in questa fase di trasmissione telematica è dematerializzato, poi una volta giunto nella memoria primaria assume la forma di un impulso tensionale elettrico, e si trova, quindi, definitivamente separato dalla materia della memoria secondaria, per cui in tale fase è propriamente dematerializzato.
In definitiva, è possibile sintetizzare il tutto affermando che i bit vengono letti dalla memoria e vengono archiviati sulla stessa mediante modifica della materia di cui è composto il supporto sul quale sono archiviati, e che i bit elaborati dal sistema e quelli teletrasmessi attraverso le reti sfruttando le proprietà fisiche dell’elettricità, delle onde elettromagnetiche e della luce, sono immateriali.
Fatta questa sintetica premessa, è possibile addentrarsi nei profili di qualificazione giuridica.
Cominciamo con il richiamare l’art. 810 del Codice civile, che riconduce nell’ambito della nozione di beni mobili “(…) le cose che possono formare oggetto di diritti”.
Ora, poiché, come visto, i bit in sé non hanno una materialità non è possibile la loro qualificazione come “cose” (rientrando in tale concetto al più la memoria sulla quale essi sono archiviati) e pertanto, non possono essere ricompresi tra i beni mobili ex art. 810 c.c.
Ma la dimensione “reale” dei bit sembra invece essere presupposta dalla previsione dell’art. 392 c.p. il quale prevede che: “Chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose, è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a euro 516
Agli effetti della legge penale, si ha «violenza sulle cose» allorché la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione.
Si ha, altresì, violenza sulle cose allorché un programma informatico viene alterato, modificato o cancellato in tutto o in parte ovvero viene impedito o turbato il funzionamento di un sistema informatico o telematico”.
Ebbene, è del tutto evidente che in tale norma, l’illiceità della “violenza sulle cose” è specificamente prevista come consumabile anche in relazione ai programmi informatici e questo nonostante sessi siano di fatto composti di bit, i quali, come visto, mal si prestano ad essere annoverabili nel concetto di “cose”.
Ma sulla questione, le posizioni non sono di certo concordi. In dottrina, infatti, alcuni Autori propendono espressamente per la materialità dei bit (su tutti Ettore Giannantonio nel suo Manuale di Diritto dell’Informatica edito da CEDAM nel 2001). Ed anche in giurisprudenza la posizione ha subito mutazioni nel corso del tempo.
Inizialmente infatti la Suprema Corte di Cassazione propendeva per l’immaterialità dei bit, tant’è vero che con riguardo ad un caso di ricettazione a carico di soggetto che si era limitato a ricevere dati, informazioni e notizie tratti da materiale documentario che era stato oggetto di furto, non riteneva configurabile il reato mancando, in siffatta ipotesi, l’esistenza di una “res” suscettibile di apprensione e possesso” (Cass., Sez. II^, sent. 13/01/2005 n. 308).
Successivamente, poi, nel 2008 poi le Sezioni Unite nel confermare il rigetto della richiesta di riesame del sequestro probatorio respinsero la tesi per cui “non esaurisce ogni vincolo di indisponibilità impresso col sequestro: la liberazione del corpus mechanicum non comprende quella del corpus mysticum”. Il mutamento dell’orientamento della Suprema Corte avvenne in una sentenza del 2014 nella quale i Giudici di legittimità partendo dal modo in cui la Corte stessa ha ritenuto come il “dato informatico” possa essere oggetto di delitto contro il patrimonio anche quale “cosa” in senso fisico, ha ammesso così il delitto di appropriazione indebita nei confronti di coloro che, accedendo abusivamente in un sistema informatico, si procurino i dati bancari di una persona riproducendoli su un supporto cartaceo, in quanto “se il dato bancario costituisce bene immateriale insuscettibile di detenzione fisica, l’entità materiale su cui tali dati sono trasfusi ed incorporati attraverso la stampa del contenuto del sito di “home banking” acquisisce il valore di questi, assumendo la natura di documento originale e non di mera copia” (Cass. Sez. V^, Sent. 30/09/2014, n. 47105).
Successivamente, ancora, la Suprema Corte richiamando tale ultimo orientamento ha affermato che il dato informatico coincide sempre con un supporto fisico anche se la sua fruizione, soprattutto con mezzi telematici, fa perdere di vista tale “fisicità”. (Cass. Sez. VI^, Sent. 10/06/2015, n. 24617)
Nel 2019, poi, in un altro suo arresto la Corte di Cassazione ha affermato che “i dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale affidato per motivi di lavoro dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer ‘formattato”. (Cass. II^ Sez. 7/11/2019 – 13/4/2020 n. 11959).
Nicola Nappi
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