Dare la prova di un fatto significa dimostrare che quel fatto sia accaduto. Fin qui nulla di complicato.
Ma se ci si pone come obiettivo che quella dimostrazione debba stabilire una certezza assoluta di quel fatto, allora cominciano ad arrivare le complicazioni!
Preliminarmente va evidenziato che molto cambia dall’ambito in cui ci si muove. Nel processo civile, infatti, per potersi considerare come provato un fatto, basta raggiungere la c.d. “certezza pratica”, cioè la riduzione dell’incertezza (intesa come possibilità di dubitare) a margini di poco rilievo. In altre parole, nel processo civile una elevata probabilità che quel fatto si sia verificato può essere sufficiente a ritenerlo “provato”. Diverso il caso del processo penale. Qui, infatti, per giungere ad una condanna si esige che il reato commesso sia provato oltre ogni ragionevole dubbio. La Suprema Corte di Cassazione ha espressamente valorizzato in un suo arresto (sent. n. 10285/2009) la contrapposizione tra la regola della prova “oltre ogni ragionevole dubbio” propria del processo penale e la regola della preponderanza dell’evidenza, detta anche “del più probabile che non”, propria del processo civile.
Ora, indipendentemente dall’ambito, i mezzi con cui si raggiunge il risultato della prova possono sintetizzarsi in due grandi categorie:
- le prove documentali, dette anche prove precostituite, quando cioè la prova è affidata ad un mezzo materiale che serve da documento di un fatto o di un atto
- le prove semplici, dette anche non precostituite e che possono quindi formarsi in corso di causa, e sono la testimonianza, il giuramento, la confessione giudiziale, l’ispezione, la perizia e le presunzioni semplici.
Soffermandosi sulla prima categoria è bene evidenziare sin da subito l’ampiezza dell’idea di documento, che si estende a qualsiasi mezzo o “sostrato” materiale capace di raccogliere e conservare la memoria dell’accadimento di un fatto o di un atto, o soltanto di alcuni aspetti di un tale accadimento.
Vale la pena soffermarsi sul concetto di “sostrato” materiale. Il progresso tecnologico, infatti, ha portato inevitabilmente ad allargare questo concetto. Partendo infatti dalla tradizionalità dei supporti “del tutto tangibili” quali la pietra, prima, la carta poi, si è progressivamente passati a quei sostrati pur sempre materiali ma decisamente meno tangibili come il sostrato magnetico (si pensi alle registrazioni audio e video) e poi al sostrato elettronico, in cui il fatto da documentare viene codificato in impulsi binari e conservato nelle memorie degli elaboratori.
E’ proprio da queste ultime considerazioni che è nato il concetto di documento informatico, riconosciuto e disciplinato dapprima con la l. 15 marzo 1997, n. 59 poi con il d.p.r. 287 dicembre 2000, n. 445 ed infine con il d.lgs 7 marzo 2005, n. 82, il Codice dell’Amministrazione Digitale (e successive modifiche).
Il C.A.D. definisce il documento informatico come una rappresentazione informatica di atti, dati o fatti giuridicamente rilevanti.
Tale testo normativo chiarisce anche quale sia il valore giuridico del documento informatico, prendendo in considerazione sia il valore giuridico in senso stretto, ossia la capacità del documento di costituire forma scritta, sia la sua efficacia probatoria, vale a dire la valenza del documento come mezzo di prova nel processo.
A tal fine il C.A.D., all’art. 21, comma 2 bis, riconosce al documento informatico la stessa validità ed efficacia probatoria della scrittura privata (art. 2702 c.c.) laddove allo stesso sia apposta una firma digitale oppure una firma elettronica avanzata o qualificata. In tutti gli altri casi, invece, il valore giuridico e l’efficacia probatoria del documento informatico sono liberamente valutabili in giudizio.
Sempre sul piano probatorio, va evidenziato che il documento informatico può assurgere al grado della scrittura privata autenticata ove la firma elettronica risulti autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell’art. 25 C.A.D. Chiaramente qualora il notaio abbia ricevuto un vero e proprio atto pubblico informatico, il suo valore sarà in tutto e per tutto corrispondente a quello di tipo cartaceo tradizionale.
Il disconoscimento, ammissibile nelle forme della querela di falso, o ai sensi dell’art. 214 c.p.c., prevede un’inversione dell’onere della prova: colui il quale disconosce la sottoscrizione dovrà dimostrare, con qualunque mezzo probatorio, di non aver apposto la firma digitale.
Discorso a parte, invece, va fatto riguardo al valore giuridico sostanziale dei documenti informatici sottoscritti con le diverse tipologie di firma elettronica. Dal tenore letterale dell’art. 21, Co. 2 bis, C.A.D., infatti, quando la legge richiede che il contratto abbia forma scritta a pena di nullità ai sensi dei primi 12 numeri dell’art. 1350 del codice civile, il documento sottoscritto con firma elettronica qualificata o con firma digitale può soddisfare il requisito richiesto, mentre invece il documento sottoscritto con firma elettronica avanzata potrebbe integrare il requisito della forma scritta soltanto al di fuori dai casi indicati nei primi 12 numeri dell’art. 1350 del Codice civile. In altre parole, un simile documento potrebbe ben essere adoperato, ad esempio, per pattuire interessi ultralegali o come approvazione specifica di clausole vessatorie, ma non invece per stipulare validamente i contratti per i quali è imposto il requisito della forma scritta a substantiam.
Nicola Nappi
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